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Vacanze Romane

Se vado a Roma per il concerto di Leonard Cohen, mi sono detto, tanto vale che faccia anche due passi per la "città eterna", visto che erano sette anni che non ci mettevo piede. Domenica notte ho finito di lavorare alle due, sono tornato a casa, mi sono fiondato a letto e ho puntato la sveglia per le cinque : avevo il treno alle sette. Non ho dormito quasi nulla e sono arrivato a Roma abbastanza rintronato - e infreddolito, perché mi è sembrato di viaggiare in una cella frigorifera, da tanto era forte l'aria condizionata. Così, quando scendo dal treno, mi sento investito da un'ondata di aria caldissima. Mi addentro nel sottosuolo per raggiungere l'albergo dove ho prenotato una camera. La Stazione Termini è modernissima e molto pulita, perciò il contrasto con la metropolitana non potrebbe essere più stridente. Inghiottito dalle cupe profondità catacombali della linea A, ci ritrovo a tratti lo stesso fascino della metropolitana bucarestina. Ma non è tutto. Per non faticare troppo, l'albergo l'ho scelto nei pressi dell'Auditorium, in piazza Euclide, e per arrivarci devo prendere le Ferrovie Roma-Nord. Quando vedo la stazione e il treno mi sembra di viaggiare indietro nel tempo, oltre che nello spazio. Se la metropolitana era cupa, questa ferrovia percorre un tunnel che sembra un antro muschioso prima di scaricarmi alla fermata successiva, caratterizzata da una piacevole frescura e da pareti dipinte in verde-ospedale-anni '70. Ieri mattina, al ritorno, mi sono messo a leggere le scritte sui muri in attesa del trenino. Spira un'aria internazionale e mi colpisce in particolare una frase in romeno: "Vă fut în cur. Am poftă de puţin cur", a cui fa seguito un indirizzo di Suceava. Così, mentre aspetto, mi domando chi potrebbe andare fin laggiù solo per farselo mettere in culo.

L'albergo è sfarzoso e quando entro in camera non riesco a trattenere un "oooh" di ammirazione. Infatti, oltre a essere molto spaziosa, la stanza è un profluvio di tendaggi, drappeggi e tappeti rossi. A dire il vero sembra un po' un bordello, ma molto accogliente. L'unico problema è che non riesco a spegnere il condizionatore - o, per meglio dire, io lo spengo ma lui si riaccende automaticamente da solo, in continuazione. Non importa, perché in quella camera ci passerò solo una notte. La mattina dopo - cioè ieri - corro subito a fare colazione, uno dei momenti per me più esaltanti ogni volta che mi trovo in un albergo decente. M'imbatto in una comitiva di spagnoli in pellegrinaggio - o almeno penso sia questo il motivo del loro viaggio, poiché sono accompagnati da una quantità esorbitante di suore che, quando si tratta di abbuffarsi al buffet, non hanno l'aria di mortificare la carne.

Il pomeriggio lo dedico quindi a una visita "al galoppo" a Roma. Voglio fare il flaneur: passeggiare e cercare di assorbire il più possibile l'atmosfera della capitale, guardarmi attorno, scrutare i volti dei turisti (tanti, tantissimi) e degli autoctoni. Mi abbandono quindi a un percorso turistico che più turistico non si può, partendo da piazza di Spagna e infilandomi subito in via Condotti. Mentre aspetto di attraversare la strada, mi arrivano frammenti di una conversazione: un uomo sta cercando di spiegare a una signora, in un inglese molto sbrindellato, la differenza tra polizia e carabinieri, ma si incaglia quando deve tradurre "potere". Dopodiché lo sento spiegare che i carabinieri sarebbero "dello stato" mentre la polizia non sarebbe proprio "dello stato". "E' privata, dunque?" ci chiediamo sia io che la signora. Lui, resosi conto delle mostruosità appena proferite e madido di sudore, ci mette una pezza. Sono ormai già più lontano quando sento che, a poco a poco, come uno studente esitante, la risposta giusta - o un suo abbozzo - gli sta spuntando sulle labbra.

Dopo via Condotti approdo in via del Corso, che percorro fino in piazza Venezia dove lancio un'occhiata al famigerato balcone, provvisoriamente vacante, ma con l'aria che tira... Giro e punto verso piazza Trevi con la sua famosa fontana: non ci sono né Anita Ekberg né la vernice rossa dell'operazione pseudo-futurista di qualche tempo fa. In compenso - come nella "Barcaccia" di piazza di Spagna - c'è anche qui un carnaio di umani con i piedi in ammollo, in cerca di un po' di refrigerio sotto un sole implacabile (e io, accidenti!, stavolta non mi sono nemmeno portato il cappellino che uso solitamente per evitare l'evaporazione degli ultimi neuroni funzionanti. In compenso, prima di sera, avrò le braccia abbronzate, con il segno bianco dell'orologio al polso sinistro).

A Roma, la sindrome di Stendhal è in agguato a ogni angolo. Basta passeggiare un po' per essere schiacciati da secoli di storia: se ci abitassi, probabilmente me ne andrei sempre a zonzo, complice un clima come quello di questi giorni. Capisco allora perché, pur insultandola e disprezzandola con tanto fervore, i leghisti pseudoseparatisti nostrani si sono affezionati alla loro poltroncina romana, proprio come tutti gli altri: in fin dei conti tra Roma e Cassano Magnago non c'è proprio partita. Voglio andare in piazza Navona e, tornando sui miei passi in via del Corso, mi dirigo verso il lungotevere Marzio. Già che ci sono ne approfitto per dare un'occhiata all'esterno dell'Ara Pacis, prima che Alemanno demolisca davvero l'involucro di Richard Meier. In occasione del precedente viaggio a Roma con M.S., quando alloggiavamo in un albergo lì vicino, l'Ara Pacis era ancora tutto un cantiere. Alla fontana lì di fronte - poco più grande di un idromassaggio - ci sono altri turisti che si fanno il pediluvio.

Arrivato in piazza Navona mi prendo un gelato: finalmente non fa più solo caldo, ma soffia anche un bel venticello. Da piazza Navona esco in corso del Rinascimento, vado fino a Sant'Andrea della Valle e da qui faccio una puntatina in campo dei Fiori, a rendere omaggio alla statua di Giordano Bruno, pensando che se andiamo avanti di questo passo quella è la fine che ci aspetta. Per chiudere il cerchio, torno in via del Corso passando davanti al Pantheon - dove trovo il terzo concentramento umano della giornata, dopo piazza di Spagna e piazza Trevi - e infine riapprodo in piazza di Spagna. Degli operai stanno transennando una parte della scalinata di Trinità dei Monti. Con la coda dell'orecchio sento un uomo di una certà età che dice, con accento romano, a un ragazzino: "Ce sta la musica classica stasera. La trasmettono anche in tivvù, su Canale 5", il che, ai suoi occhi, conferisce probabilmente allo spettacolo il suggello definitivo della sua bontà e validità. A questo punto riprendo il metrò - anzi, la metro, visto che siamo a Roma - e, sudato e puzzolente, rientro in albergo. Sono appagato perché mi è bastato questo assaggio della città per infondermi buon umore, ma frustrato perché in cinque ore, mi rendo conto, non è possibile vedere una beneamata fava.

Ieri mattina, infine, dopo la colazione in mezzo alle suore e agli spagnoli, faccio il check-out e vado alla stazione. Non ho tempo per farmi un altro giro della città e allora mi limito a curiosare nei negozi di Stazione Termini: la libreria ha una sezione gay-lesbo discretamente fornita, anche se sembra soprattutto la vetrina di un piccolo editore romano specializzato nel genere, di cui però non farò il nome. Le quattro ore e mezzo - anzi, e tre quarti, perché il treno arriva a Milano in ritardo - sono allietate dalla mia dirimpettaia, una giovane piuttosto in carne che passerà tutto il tempo a parlare al telefono, rendendo partecipe me e gli altri due compagni di viaggio - marito e moglie - degli affari suoi. Tutti e tre continuiamo imperterriti a leggere, ma è impossibile non ascoltare monologhi che paiono presi di peso da una puntata di "Uomini e donne". Manca solo che spunti Maria De Filippi da sotto il sedile, a vedere i bei risultati del rimbecillimento da sovraesposizione al tubo catodico. Per sfuggire all'imbarazzo che provo io al posto suo fisso un punto indistinto nel vuoto, fingendo di non sentire, ma è un'impresa ardua: "No, perché io ho chiesto a mamma che mi ha detto che se lui ti ama veramente allora ti accetta così come sei. Io non avevo il coraggio di dirtelo in faccia... sono molto cambiata, ma mamma mi ha detto: Clara, diglielo, se ti ama veramente...", "Io sento che devo cambia' il carattere mio... e solo tu puoi farlo... ma tu... mi ami, eh... mi ami?", fino a un impagabile: "Oh, ma nun sai se ce sta un estetista vicino alla Stazione Centrale? Eh, non ho fatto a tempo a famme fa' le sopracciglia a Roma...". Non appena dietro si libera un posto, comunque troppo tardi visto che siamo già in Lombardia, mi sposto e trovo un po' di pace.

A Milano il caldo mi liquefa. Torno a casa a piedi, mi faccio una doccia perché puzzo di sudore e di treno, e corro in ufficio. Mi sembra di essere stato via un'eternità e forse il segreto per non farsi risucchiare dalle proprie sabbie mobili è proprio questo: dormire poco, fare una gran quantità di cose in poco tempo, muoversi e continuare a cambiare lo sfondo contro cui si srotola il nastro delle nostre esistenze.



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